Quattro chiacchiere con Pino Allievi
© Pino Allievi
F1

Quattro chiacchiere con Pino Allievi

Firma storica del giornalismo sportivo italiano, Pino Allievi da tempo racconta il velocissimo mondo della F1. Questa volta, però, a raccontarsi è stato lui stesso: ecco la nostra intervista
Di Stefano Nicoli
11 minuti di letturaPubblicato il
“Ogni deviazione contiene destino. Anzi, esso si compie solo nei punti in cui uno si trae fuori di percorso”. Al termine di una chiacchierata telefonica durata più di un’ora, è forse questa la frase che, istintivamente, più mi viene da associare alla figura professionale di Giuseppe Allievi. Appassionato di motori, voce narrante di ere del Motorsport a noi ormai lontane, testimone di imprese che hanno oltrepassato la Storia per sfociare nella Leggenda, colui che per gli amanti dei motori è firma storica de La Gazzetta dello Sport vede nascere il suo racconto di vita per via di un bivio, una “deviazione” come la definì appunto Erri De Luca. Perché Giuseppe – anzi, Pino – agli albori della sua carriera sembrava proprio non volerne sapere, di lavorare grazie alla Formula 1…

Parliamo del “personaggio” Pino Allievi: chi è?

Pino Allievi è un pazzo nato sul Lago di Como, appassionato di letteratura italiana, con un padre che le auto le viveva dal punto di vista finanziario, senza occuparsi del lato tecnico della questione. Da questo mix, che ha visto fondersi un animo finanziario con un animo letterario, ne è infine scaturito un giornalista. Giornalista che peraltro, almeno agli inizi, avrebbe voluto occuparsi di cultura, di letteratura per l’appunto. A un tratto, tuttavia, mi sono ritrovato trascinato da un vortice di motori e di automobili: seguivo già da anni le gare per hobby, per pura e semplice passione, e all’improvviso si presentò l’occasione di iniziare a scrivere per La Gazzetta dello Sport. Mi dissi: “Dai, provo per qualche mese”, e invece quel “qualche mese” si è sostanzialmente trasformato in un “per tutta la vita”.

Cosa ha portato Pino Allievi a legarsi con la Formula 1 e il mondo dei motori?

Oserei dire il caso. Ai tempi de La Gazzetta fui fortunato a trovare la conferma di Enrico Benzing, e fui nuovamente fortunato nell’avere l’appoggio di Enzo Ferrari, per la cui Scuderia mio padre aveva lavorato nel periodo in cui in seno al Cavallino di Maranello c’era ancora il Biscione di Arese. In più, confesso che personalmente ero già attratto da quel mondo da diversi anni: assistere alle gare mi piaceva, e la mia indole mi permise di conoscere moltissimi piloti ancora prima che la mia passione si trasformasse nel mio lavoro. Oltretutto, io ho iniziato con le moto. Alla Gazzetta erano alla ricerca di qualcuno che seguisse il Motomondiale, all’epoca seguito quanto se non più della Formula 1, e io per diversi anni sono stato l’unico giornalista italiano a seguire quasi tutte le gare dei campionati in cui imperversavano i vari Agostini, Lucchinelli, Saarinen e Roberts.
Poi, nel 1978, per questioni intestine alla Gazzetta si liberò improvvisamente un posto per seguire la Formula 1, una passione che però non volevo si trasformasse in lavoro. Anche questo ruolo avrebbe dunque dovuto essere provvisorio, perché di persone che avrebbero voluto seguire il Circus ce n’erano già parecchie, ma neppure in questo caso le previsioni si sono avverate. A me, peraltro, abbandonare le moto dispiaceva, perché tra le due ruote c’erano degli aspetti ludici che in Formula 1 (un mondo che avevo già avuto modo di vivere professionalmente in alcune occasioni) invece mancavano. Resta il fatto che iniziai nel 1978, con il Gran Premio d’Argentina, e proseguii con quello del Brasile, immediatamente successivo al primo. Dopodiché mi chiesero di andare anche a quello del Sudafrica, in attesa che prendessero un nuovo giornalista, ed è finita che ho dovuto aspettare 30 anni prima che arrivasse qualcuno al mio posto. È stato un bene comunque che le cose siano andate così, perché la Formula 1 è un mondo che ti penetra fin dentro le ossa, che ti lascia una visione del mondo diversa da qualsiasi altro ambito: raccontare questo sport in maniera seria – e non cialtronesca – fa sembrare improvvisamente facile raccontare tutti gli altri mondi, ti dà una completezza che nessun altro ambiente riesce a darti.

In F1 hai vissuto periodi molto diversi dal punto di vista della comunicazione: c’è un periodo che torneresti a raccontare più volentieri?

Parto subito con il dire che il mio non è un discorso nostalgico: a qualunque età è ormai pieno di persone che sostengono che tutto era più bello prima, e io non appartengo a questa schiera. Se di rimpianto si può parlare, io rimpiango la Formula 1 degli anni ’80: era libera, e dunque bella da raccontare. Ricordo che nei primi anni della mia carriera ero spesso in trasferta senza automobile, ma altrettanto spesso ero negli alberghi in cui dormivano piloti e team manager e dunque arrivare in circuito non è mai stato un problema: erano i piloti stessi ad offrirti un passaggio, un qualcosa di impensabile per la Formula 1 moderna. Avevi la possibilità di instaurare dei rapporti che duravano tutta una vita, e sui piloti avevi la possibilità di scrivere davvero dei libri, dei romanzi. Ora è tutto il mondo della comunicazione sportiva che è peggiorato, e credo che a portarlo qui dove siamo ora sia stata proprio la F1: d’altronde uno dei primi atleti di caratura mondiale ad avere introdotto la figura dell’addetto stampa personale è stato un certo Michael Schumacher, quindi per certi versi si può dire che la Formula 1 abbia fatto scuola da questo punto di vista.

In questo nuovo contesto comunicativo, un giornalista come racconta un mondo protetto spesso dal filtro dell’Addetto Stampa?

Per certi versi, questa tipologia di comunicazione ha dato vita a una sorta di giornalismo… malato. Ormai molte dichiarazioni sono uguali per tutti, eppure in parecchi fanno finta di avere avuto l’occasione per intervistarlo a quattr’occhi imbastendo un botta e risposta che in realtà non c’è mai stato: questa, nello specifico, credo che sia la più grande malafede della storia della Formula 1. Prima dell’era Schumacher, uno stesso pilota poteva rilasciare nello stesso giorno due interviste su tematiche totalmente differenti: ora un qualcosa del genere non solo non è più fattibile, ma per certi versi non è più neppure pensabile. Oltretutto, a mio avviso, questo modo di porsi nei confronti dei giornalisti è anche un’arma a doppio taglio dato che avere un filtro così invadente come quello degli Addetti Stampa ti pregiudica – e non poco – il ritorno d’immagine che si potrebbe avere da un’intervista più vera. La Formula 1 attuale, quella che viene raccontata attraverso una serie di risposte che dicono sempre la stessa cosa, non è percepita come “bella”.

Viene da pensare che ora sia più semplice sostenere di avere raccontato qualcuno che non raccontarlo davvero…

Attualmente l’unico racconto che si ha modo di portare all’esterno è solo e soltanto quello che ti propinano i team. Io lo definisco “giornalismo da Wikipedia”: al giorno d’oggi si potrebbe scrivere la storia della Formula 1 senza avere mai visto nessuno di quei piloti di cui si parla, senza avere mai vissuto un fine settimana di gara. Tutto questo si traduce in descrizioni scontate, e a spiccare sono coloro che riescono a inventare meglio.

Si dice che la F1 recente sia in costante ricerca di una sempre maggiore spettacolarizzazione: sei d’accordo? Credi che sia la strada giusta?

Credo che la questione, attualmente, la si stia affrontando da due differenti punti di vista. Prendiamo come esempio la questione della Sprint Race: da un lato c’è chi si schiera per preservare la tradizione delle qualifiche, forse il momento più bello, più vero all’interno di un fine settimana di gara e che ha saputo regalare alla cultura popolare concetti come quello di “pole position”; dall’altro, di fronte a un dominio incontrastato, c’è sempre chi grida alla noia cercando di trovare modi per inserire l’incerto, l’improvviso all’interno di un weekend che altrimenti avrebbe l’esito già scritto. Stabilire quale delle due fazioni abbia ragione non è semplice, e Liberty Media si ritrova sempre a dovere trovare il giusto equilibrio tra chi vorrebbe assistere a un nuovo spettacolo – la Sprint Race al sabato per l’appunto – e chi invece teme che con un sistema in grado di alterare in qualche modo lo status quo della Formula 1 possa venire fuori un Mondiale per certi versi sfalsato.
Per assurdo, assegnando dei punti già al sabato a chi verosimilmente dominerà anche la domenica, la lotta per i Titoli potrebbe concludersi ancora più rapidamente del recente passato proprio a causa dell’elemento che avrebbe dovuto invece rendere più incerta la lotta al vertice. A me, oltretutto, sembra che prima ancora di ricercare una maggiore spettacolarizzazione si provi a trovare un modo per arginare uno strapotere sportivo ottenuto con merito. Un qualcosa che non mi sembra affatto giusto, a volerla dire tutta: la Formula 1 è uno sport con dei chiari e degli scuri feroci, che non ha mai perdonato nulla a nessuno e che secondo me dovrebbe rimanere così.

Pino Allievi è Team Principal di una scuderia di F1: quale coppia di piloti sceglie per cercare di vincere il Mondiale? E perché?

Non avrei molti dubbi: prenderei con me Juan Manuel Fangio e Ayrton Senna. Il primo perché è sempre stato abile nella messa a punto, perché aveva la straordinaria capacità di portare al limite le auto senza però chiedere loro troppo dal punto di vista della meccanica, perché garantiva ottimi risultati in maniera costante e perché, nonostante l’epoca in cui ha gareggiato, è sempre riuscito nella non facile impresa di correre dei rischi che potremmo definire limitati. Il secondo, molto più cinico di Fangio, perché la velocità che riusciva a esprimere lui nell’arco di un’intera gara non è più riuscito a esprimerla nessuno. Se potessi poi completare la mia scuderia ideale, come ingegnere opterei per Mauro Forghieri, persona e personalità che con la Ferrari è riuscito a vincere 11 Mondiali, nel ruolo di Team Manager sceglierei invece Toto Wolff e come Responsabile delle pubbliche relazioni opterei per Flavio Briatore. E, lo confesso, non assumerei un Addetto Stampa: sai quanti titoloni di giornale potremmo avere, facendo vigere la più assoluta libertà di parola in un team come questo?
Pino Allievi con Toto Wolff

Pino Allievi con Toto Wolff

© Pino Allievi

Quale pilota hai raccontato con più piacere o che ti è sembrato più interessante dal punto di vista umano?

Niki Lauda, senza ombra di dubbio alcuna. Un uomo che abbandona le corse, decide di misurarsi con i colossi del volo commerciale fondando la propria compagnia aerea e poi torna a gareggiare è un qualcosa di eccezionale, oserei dire irripetibile. Lui e il suo viso sono stati romanzo vivente per anni, simbolo di una carriera assolutamente fuori da ogni logica, e lo spessore umano che ho trovato in lui non l’ho più visto da nessun’altra parte. Attento a ogni aspetto della vita, pronto e preparato su innumerevoli questioni, schierato in maniera positiva su dibattiti attualissimi… non ho mai smesso di scoprire aspetti del suo carattere, e dire che l’ho conosciuto per molti anni. Ha avuto la forza di portare avanti le proprie idee senza paura, e questo non è affatto banale per un mondo a volte ambiguo e reticente come quello della Formula 1.

Quando si parla di “storie”, molti pensano si debba scavare nel passato: credi invece che anche i piloti giovani ne abbiano da raccontare?

Oggi credo che manchi un po’ di coraggio. Sembra che i piloti più giovani siano stati programmati per non raccontare, e d’altronde le Academy delle varie scuderie preparano anche a questo: l’essere inseriti in contesti dove le pubbliche relazioni vengono gestite in un certo modo ti porta a imparare come non rispondere alle domande vere, personali, in alcuni casi anche scomode. A ben pensarci è un qualcosa di assurdo, perché così facendo viene drammaticamente meno la spontaneità, la sincerità e lo spessore delle persone che si hanno di fronte.

F1 e MotoGP sono le categorie regine delle 4 e delle 2 ruote: credi che a livello umano ci siano differenze tra i piloti delle due categorie?

No, assolutamente no. Credo che qualche diversità possa essere notata quando si osserva in che modo gli uni e gli altri gestiscano – o siano messi nelle condizioni di gestire – le proprie carriere. I piloti della MotoGP sono più liberi, e questa libertà si traduce in una maggiore freschezza che viene facilmente riconosciuta da chi segue le corse.

Hai ancora qualche sogno nel cassetto, una storia che vorresti raccontare più di altre?

La storia che vorrei poter raccontare è quella di una Formula 1 tornata a raccontarsi in maniera sincera, viva. Anche solo per una stagione, un’annata in cui ci sia un “liberi tutti” generale che permetta di trovare il cuore sotto la corazza. Non è poi chiedere molto, non trovi?